Autunno dolciastro. Eri tu quel tasto dolente.

Ci sono cascata di nuovo. Sono ricaduta nel vortice della pasticceria. Mi ero ripromessa che non avrei più fatto una torta, una crostata, un muffin, un biscotto; per non cadere nella tentazione di mangiarne, e per non cadere in quella peggiore delle sfide ardite. Avevo messo fine a tutti quegli esperimenti che su carta promettono il massimo del piacere per il palato e per l’anima, il massimo della soddisfazione per il mio ego esaltato, e che poi si rivelano delle enormi delusioni.

Mi è capitato troppe volte di lasciarmi trascinare dall’entusiasmo per un progetto faraonico, di calarmi nei panni del boss delle torte sopravvalutando le mie capacità. E ogni volta il contraccolpo per la mia autostima è stato tremendo. È successo con la torta “rosa del deserto”, tanto lavoro per nulla; con la ganache al cioccolato che sembrava acqua; con i croissant. Ho iniziato a farcire le mie torte con ogni tipo di crema e panna perché non sopportavo più l’umiliazione di sentirmi chiedere ogni volta un bicchiere d’acqua per mandar giù il boccone. E alla fine ho detto basta: ho appeso il guanto da forno al chiodo e riposto la sac à poche nel cassetto.

Ma ieri, complice il troppo tempo libero, complice una settimana di masochismo passata a guardare siti di ricette e immagini di torte al cioccolato a tre strati, afflitta da un’acuta forma di tristezza, coi livelli di serotonina ai minimi storici, ho fatto la spesa. E mi son ritrovata per l’ennesima volta con le mani in pasta.

Il mio istinto suicida mi ha portato a provare non una, ma ben due ricette ad alto tasso calorico. Grassi e zuccheri -> ∞ (tendenti all’infinito). Sì, così recitava la lista degli ingredienti. Non contenta ho perfino pensato di alzare il grado difficoltà scegliendo le ricette da un sito inglese, di quelli che usano il bicarbonato e la panna con minimo il 40% di grassi sennò non son contenti, e ho guardato i video in lingua originale senza preoccuparmi di capire alla lettera cosa dicevano, come se la pasticceria non fosse una scienza esatta. Ho scelto i miei soggetti: cream cheese brownies e banoffee pie; nomi che esalavano grandezza e odoravano di buono.

La prima prova sembrava facilissima; due impasti semplici, pochi ingredienti: una base al cioccolato e uno strato superiore simil-cheese cake da sovrapporre per creare l’effetto marmorizzato (sembro pure un’autorevole esperta). Non so cosa sia andato storto, ma ho iniziato a dubitare della riuscita dell’operazione già al primo passaggio: quando l’ho spezzato, il cioccolato fondente non ha fatto “stack”; brutto segno. Il risultato è un’appiccicosa mattonella gialla e marrone, che aspetta dentro il frigo che si compia il suo destino. Non ho ancora avuto il coraggio di buttarla.

Il secondo tentativo, che ora cerca di farsi coraggio dentro al frigo insieme agli amici brownies, prevedeva una farcitura col dulce de leche, altresì detto caramello. Per fortuna il buon senso mi ha assistito e non ho deciso di farlo da me, l’ho comprato pronto. Nonostante presagi funesti continuassero a suggerirmi di lasciar perdere – la base di pastafrolla si è attaccata alla tortiera e credo pure di aver visto un corvo volare davanti alla mia cucina – ho continuato sulla mia strada. Armata di coltello ho staccato la base dalla teglia sbriciolandone i bordi e spezzando il fondo in tre parti; l’ho farcita comunque col caramello, le banane e la panna montata e con una reazione d’orgoglio ne ho mangiato una fetta enorme per dimostrare che non era poi così immangiabile. Adesso aspetta anch’essa di conoscere la bustina verde dell’umido.

Che dire, questo ottobre è proprio una merda. Devo smetterla di sfidarlo.

P.S. Il titolo è una citazione. Non so come mai, ma quando son giù c’è sempre una canzone di Carmen Consoli adatta a coronare il momento.
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