Piccole storie budapestiane: speciale Natale

Non so se sia arrivata prima l’idea di raccontare proprio questa storia o il desiderio di non finire l’anno narrativo così mestamente, con le disavventure del mio occhio sinistro.

Avevo bisogno di qualcosa che mi risollevasse lo spirito; di un po’ di speranza, di gioia Natalizia; quella che danno le lucine colorate, il profumo di cannella e mandarini, e lo scampanellio di renne in lontananza.

Ma anche di dimostrare al mondo che sotto il mio spesso strato di cinismo, avvolto da uno ancora più grosso di follia, se ne cela uno sottile ma tenerissimo – e imbarazzante – da orsetto del cuore.

Così, tra le righe della mia ultima tragedia, decisi che la prossima storia sarebbe stata una commedia.

Nello specifico, una commedia romantica da pomeriggio delle feste su Canale 5; perché il background culturale è quello che è.

Ma dato che questo 2020 in quanto a poesia e romanticismo ha concesso ben poco, la storia sono andata a ripescarla dall’archivio dell’anno passato; come un diligente fantasma dickensiano.

Dicembre 2019.

Il set è la via della foto: Aulich utca; a esser precisi, la minuscola piazzetta che le sta di fronte da cui è stata scattata, e che si trova all’incrocio tra questa e altre quattro strade.

All’ingresso opposto c’è un’altra piazza, meta fissa dei tour per turisti: ogni volta che passavo di lì, e succedeva spesso, trovavo un gruppetto di persone – per qualche strano motivo, sempre spagnoli – intento ad ascoltare la storia del monumento alla memoria dei militari Russi.

Questo per dire che non si tratta di una sperduta viuzza di periferia, ma di un’elegante zona turistica.

Eppure, vi regna una pace surreale.

Budapest mi ha sempre stupita per la silenziosità delle sue strade ma questa le batte davvero tutte: ha qualcosa di magico.

È stata la prima strada che ho visto ricoprirsi di lucine natalizie e tra tutte era la mia preferita.

Più la guardavo più le rotelline nella mia testa correvano: immaginavo una scena da film; una di quelle in cui due innamorati ballano sulle note di una canzone che sentono solo loro, noncuranti degli sguardi dei passanti.

In preda a un estemporaneo delirio di onnipotenza, decisi che volevo avere il mio film; essere la protagonista di quella scena. È sempre stato uno dei miei sogni nel cassetto. (Il secondo; perché il primo resta farmi accogliere in gelateria con un gioviale: “Il solito”? e andar via soddisfatta con la mia cialda banananutella.)

Decisi che era giunto il momento di realizzarlo.

Il mio piano era semplice e lineare: alla prima sera utile avrei condotto l’ignaro coprotagonista sul luogo, con nonchalance gli avrei infilato una cuffietta nell’orecchio, premuto play, e l’avrei trascinato nel mio luccicante sogno danzante.

Sulla colonna sonora non avevo alcun dubbio: Frank Sinatra avrebbe cantato Have yourself a merry little Christmas solo per noi. Quindi, l’ho messa in cima alla playlist nel telefono perché fosse subito a portata di mano e ho caricato gli auricolari per non rischiare intoppi.

(A questo punto dovrebbe essere abbastanza chiaro che guardare troppa tv fa male.)

I giorni a nostra disposizione però non erano tanti, e gli impegni riuscivano sempre a portarci altrove. Restava solo un fine settimana, dopodiché saremmo partiti per trascorrere il Natale in patria.

Quel fine settimana piovve a dirotto.

Puff: fine del sogno.

Avevo l’umore a terra.

Si tende a non confidare i propri desideri per paura che non si realizzino: io non avevo più niente da realizzare; di lì a tre giorni avremmo ripreso l’aereo. Ormai disillusa, raccontai tutto al coprotagonista. (Che segretamente ringraziò il cielo per il provvidenziale diluvio che l’aveva
salvato.)

La mattina della partenza approfittammo delle ultime ore libere per fare scorta di dolciumi da portare ad amici e parenti.

Fu il cioccolato a riportarmi lì, in quella minuscola piazzetta.

Il mio orgoglio ferito si risvegliò. Era quasi mezzogiorno, le luci erano spente ma puntai i piedi lo stesso e tirai fuori gli auricolari dalla borsa.

I problemi tecnici col Bluetooth non riuscirono a fermarmi, né a far tornare alla mente il mio piano al coprotagonista che mi guardava stranito.

In qualche modo le note arrivarono alle nostre orecchie; gli buttai le braccia attorno al collo e iniziai a dondolare.

Perché io non so ballare, è risaputo.

Ero un palo felice che abbracciava un palo terrorizzato che continuava a guardarsi attorno cercando una via di fuga.

La strada era deserta e la canzone suonava solo per noi. Ma la sua tensione cresceva: all’avvicinarsi di una coppia di estranei (come da copione) ebbi pietà di lui e lo liberai prima che Frank finisse di cantare.

Potevamo scordarci la candidatura agli Oscar ma io ero comunque soddisfatta; il mio sorriso ne era la prova.

Tornai a casa con un desiderio in meno nel cassetto e una convinzione in più: i sogni possono avverarsi anche se li dici a voce alta, basta dirli alle orecchie giuste.

Credits

Per la realizzazione del film si ringraziano: il comune di Budapest, i cioccolatini di Szamos, Frank Sinatra, Ryan Gosling per aver rifiutato la parte, e la memoria del mio ragazzo che oggi avrà un sussulto ma all’epoca, per fortuna, funzionò – male – come sempre.

Buon Natale!

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